Una lente di ingrandimento sul mondo della comunicazione
Seguendo la più aggiornata definizione delle generazioni attuali, io dovrei appartenere ai millennials, anche definiti generazione Y, cioè tutti coloro nati tra gli anni ‘80 e gli inizi degli anni ‘90. Questa fascia di pubblico a cui appartengo fierissima, ha sulla pelle serie TV del calibro di Beverly Hills, Melrose Place, Dawson’s creek e Lost. Per intenderci è la generazione che ha dato il via alle danze a un tipo di storytelling a puntate sul piccolo schermo.
Per questo motivo, io, come tutto il popolo “giovanile” in epoca di pandemia, abbiamo passato le ore di lockdown e oltre, a sfogliare il catalogo multimediale di Netflix, Amazon Prime e compagnia.
Vagando nell’etere, non potevano che attirarmi anche quei titoli che mi permettono di vedere, sotto un’altra lente, il mio lavoro.
Qual è il mio lavoro? Sono un content creator per la comunicazione digitale e non. In questo ambito sono ormai moltissimi i titoli presenti e che, al contempo, mi hanno incuriosito: da Social Dilemma a Thank you for smoking, fino alla famosa serie che tutti gli addetti ai lavori dovrebbero vedere (dicono) Mad Men.
Bene, come molti, sotto l’effetto hangover dello scrolling delle piattaforme di streaming più famose, ho scelto, guardato e giudicato.
Mad men vs West Wing
All’annoso dilemma cosa scegliere, mi sono ritrovata davanti a Mad Men, nata nel 2007, composta da 7 stagioni per un totale di 92 episodi. Traccia la storia di un’agenzia di pubblicità negli anni ‘60, periodo già di per sé complesso per molti aspetti.
Il risultato dopo solo tre puntate? Avevo l’ansia da ufficio anche a casa. Perché? Beh per quanto si tratti di una retrospettiva degli anni ‘60 americani, oltre alle vicende strettamente legate all’advertising, ci ho visto, moltissimi, forse troppi legami con la vita in agenzia. Questo la dice lunga su come, ancora oggi, le agenzie siano strutturate e su come lavorino.
Non posso certamente dire che Mad Men non sia un ottimo prodotto, ed è colmo di spunti interessanti. Ma no, non sono riuscita a finirla, mi sono ritrovata ad andare a letto più stressata che dal ritorno dall’ufficio. Stereotipi, ansia prestazionale e bullismo, mi hanno fatto cedere presto. Però mi ha lasciato con una domanda: è possibile che ancora oggi i luoghi della pubblicità siano vittime degli stereotipi più vetusti?
Poche sere dopo, con il solito effetto delusione che mi si concentra in gola quando devo scegliere “cosa vedere”, mi sono imbattuta in West Wing. Tutti gli uomini del Presidente; 154 episodi da circa 45 minuti, usciti tra la fine degli anni ‘90 e i primi anni del 2000. Per me episodi che hanno avuto la stessa influenza di 40 anni di Beautiful sulla vita della mia povera nonna.
West Wing è il racconto molto sagace del team del Presidente democratico degli Stati Uniti d’America. Un gruppo di personaggi descritti benissimo: dalla segretaria languida a l’agguerrita portavoce del Comandante in capo, fino al responsabile dello staff presidenziale, un burbero veterano che dirige, a volte meglio del presidente, le azioni politiche.
Attraverso una narrazione scanzonata, tipicamente americana, e un tono molto ironico ed empatico, lontano da fronzoli formali, si portano in evidenza le vicende di 8 anni di legislatura americana.
Ovviamente è interessante per i contenuti di alto valore, che esprimono in modo verosimile, la situazione politica democratica del momento. In particolare nella prima fase la serie si rifà alla presidenza Clinton, con scandali comparati e situazioni internazionali simili, come la questione palestinese. Mentre in una seconda fase, la serie sembra esprimere la frustrazione della presidenza Bush, evocando un sogno democratico ancora intatto e allo stesso tempo polemizzando su alcune mancanze del Partito Democratico.
Seppure interessanti, non sono stati questi temi a tenermi attaccata allo schermo. Quello che mi ha catturato sono stati quelli che definirei elementi secondari alla trama:
- la divisione dei compiti, magistrale e puntuale;
- la frustrazione di Toby, colui che oggi chiameremo il content creator, responsabile del tone of voice del Presidente;
- l’incredibile capacità di C.J. di non dire assolutamente nulla per non scalfire l’operato del presidente dentro una sala stampa;
- l’analisi politica e le strategie, sempre del tutto azzeccate del visionario Josh Lyman.
Queste sono solo alcune delle caratteristiche della serie che mi hanno fatto guardare al mio lavoro come qualcosa di bello e unico.
E poi c’è chiaramente lui, il prodotto, cioè il Presidente, la fucina delle idee, the king, il contenuto stesso. Un uomo di mezza età pieno di contraddizioni, ma anche di immensa giustizia. Un padre, un uomo, un premio Nobel e molto altro ancora.
Quindi, se dovessi consigliare a chi si approccia al lavoro nella comunicazione, all’interno di un’agenzia di comunicazione, marketing e affini, direi di guardare West Wing, per il principio sano che sta dietro al lavoro in team, all’idea di innalzare ogni piccolo principio a qualcosa di grande, dandogli un valore profondo. Direi di guardare questa serie per provare a sognare e magari anche a cambiare lo status quo.
Per dirla con le parole di Toby alla fine della penultima puntata, offrendo una spinta verso una perenne evoluzione di noi stessi e del nostro lavoro: “c’è un refuso nella prima stesura della costituzione”, tutti noi possiamo lavorare al fine di trovare e correggere quel refuso, con la consapevolezza che correggerlo potrebbe voler dire incorrere in altri errori. Questa frase mi insegna anche che non ci sono dogmi e che anche i padri fondatori possono commettere errori.
Come un sipario che si chiude su un progetto e la certezza che si riaprirà l’indomani per un altro spettacolo, West Wing è la speranza che il contenuto di valore la faccia sempre franca rispetto all’artificiale.
Ho finito tutte le puntate e mi sento un po’ orfana.